Di Marco su concorsi pubblici, una degenerazione feudale delle istituzioni
29 dicembre 2025 - 09:00

(ACRA) - “Leggiamo le cronache pescaresi con quel senso di smarrimento che coglie chi, convinto di aver toccato il fondo, scopre che qualcuno ha iniziato a scavare. Il presidente del consiglio comunale, che probabilmente ha confuso la pianta organica con l’asse ereditario, si difende brandendo il codice civile come fosse un rosario: ‘Tutto lecito, tutto permesso’. E ha ragione lui, per carità. In Italia il diritto è spesso l'ultimo rifugio di chi ha perso il senso dell'opportunità. Se l'unica difesa rimasta a chi rappresenta la Città è 'non è reato', allora abbiamo un problema politico gigantesco. Perché amministrare Pescara non dovrebbe significare cercare le zone grigie del codice, ma garantire la trasparenza della Casa Comunale. Non serve un avvocato per capirlo, basterebbe il buon senso. O forse, solo un po’ di pudore”, così il consigliere regionale Antonio Di Marco (PD) su notizie di cronaca relative a concorsi pubblici nel Comune di Pescara. “Ma c'è qualcosa di infinitamente più tragico in questa ‘parentopoli’ adriatica rispetto alle grandi abbuffate del passato, e guai a scambiare questa constatazione per nostalgia. Negli anni ottanta – scrive Di Marco - quando la ‘Pescara da bere’ del vecchio pentapartito truccava le carte per le famigerate 61 assunzioni, commetteva un crimine, sì, ma un crimine ‘sociale’. Il vecchio ras della prima repubblica, cinico quanto si vuole, abusava per distribuire. Lottizzava per creare clientele, certo, ma quelle clientele erano fatte di poveri diavoli, di invalidi (veri o finti poco importa), di gente comune – sottolinea - . Era un welfare inquinato, un patto scellerato tra il Palazzo e la folla, ma era pur sempre politica, per quanto deviata. Oggi siamo oltre. Siamo alla degenerazione feudale. La classe dirigente attuale non ha più bisogno del consenso, o forse lo disprezza. Non usa più le istituzioni per comprare il popolo, le usa per sistemare la dinastia. Non c'è più lo scambio, c'è l'arraffamento. I concorsi non servono a placare la fame di lavoro della città, ma a garantire l'argenteria di famiglia. È il passaggio dal clientelismo, che è una malattia della democrazia, al familismo amorale, che ne è la negazione assoluta”. “Ha ragione quel segretario di circolo del PD che, con una provocazione degna di Swift, ha proposto di ‘regolarizzare i parenti’ nello Statuto. Almeno ci risparmieremmo l'ipocrisia dei concorsi anonimi e delle commissioni bendate. Se il Comune deve diventare un tinello di casa, tanto vale togliere la targa ‘Municipio’ e metterci il citofono, magari di quelli coi numeri, come si usa nelle case borghesi che vivono il lusso a patto dell’anonimato. Nel 1988 – continua ancora Di Marco - mentre la giunta traballava sotto il peso delle inchieste per quelle vecchie assunzioni, qualcuno notò con cinismo che le pretese apparizioni di Montesilvano giunsero a proposito per distogliere lo sguardo della città dalle miserie del Palazzo. Fu una coincidenza che diede respiro al potere. Oggi, di fronte a questa occupazione familiare delle istituzioni, ci si chiede quale evento portentoso, quale prodigio celeste o terreno occorrerebbe per distogliere l'attenzione da una simile negazione della democrazia. O forse il rischio vero è un altro. È che non serva più nessun miracolo e nessuna cortina fumogena”. “Una volta il potere, per sopravvivere ai propri vizi, aveva bisogno di distrarre la platea, segno che temeva ancora il giudizio. Oggi non cerca più alibi perché ha perso l'unica cosa che un tempo frenava gli istinti peggiori: la vergogna” conclude. (com/red)